Negli Usa chiudono,
in Italia aprono: McDonald’s vince
sulla cucina italiana?
La catena simbolo del fast food arretra negli Stati Uniti ma in Italia continua a crescere: 720 ristoranti, milioni di panini venduti e un delivery capillare. Intanto chiudono migliaia di trattorie e ristoranti popolari. La “vittoria” di McDonald’s non è sul gusto, ma sulla capacità di sostituire, col passare degli anni, la cucina di territorio con format standardizzati
Redattore
«ACrispy McBacon, please». No, Italia a Tavola non è diventata improvvisamente anglofona. Si tratta, invece, della traduzione letterale di «Cortesemente, un Crispy McBacon» pronunciato nello spot nazionale da Achille Lauro, cantante e già protagonista del Festival di Sanremo, per McDonald’s. Una frase che, nel contesto della pubblicità, sembra innocua. Eppure dietro quella frase si nasconde una contraddizione ben più grande: infatti, mentre i sindacati protestano da anni per la mancanza di un contratto integrativo aziendale e accusano McDonald’s di non garantire tutele adeguate ai lavoratori, la multinazionale sceglie di continuare a investire milioni di euro in promozioni pubblicitarie - vedi, appunto, quella di Achille Lauro.
Una campagna scintillante, quindi, costruita sull’immagine, che stride con le rivendicazioni degli addetti alle cucine e alle casse, lasciati da anni (la prima richiesta è datata 2023) senza risposte. Ed è proprio questa contraddizione a rendere ancora più interessante il caso McDonald’s Italia, soprattutto se lo si osserva nel confronto con ciò che sta accadendo - per tornare alla frase in inglese iniziale - negli Stati Uniti, la patria del fast food. Qui, infatti, nei primi tre mesi del 2025, la catena a stelle e strisce ha registrato un calo del fatturato del 3,6%, il peggior risultato dai tempi della pandemia. Una flessione che - va sottolineato, e sottolineato ancora - non è soltanto numerica, bensì simbolica: una flessione che ci racconta come il modello fast food, un tempo motore di crescita senza freni, oggi è in crisi esistenziale.
I fast food e il paradosso italiano
Se in America McDonald’s arranca, in Italia continua a crescere. Praticamente ogni mese, di fatto, si cita l’apertura di un nuovo locale, da Nord a Sud, con una maggiore concentrazione nelle aree metropolitane e nei centri commerciali. Persino in città di provincia ormai non manca almeno un’insegna a stelle e strisce. Una presenza che diventa quasi un segno di “modernità”, anche laddove la cucina locale ha ancora un peso forte. Non è un caso che al Meridione, dove resiste con più forza la ristorazione familiare e il cibo di strada, la diffusione dei fast food sia meno capillare.
Ed è sufficiente guardare ai numeri per capire la portata del fenomeno: 778 ristoranti attivi, di cui 480 McDrive (i punti vendita con corsia drive-in per ordinare e ritirare senza scendere dall’auto) e 610 McCafé (le caffetterie interne che affiancano il menu tradizionale con colazioni e bevande calde), gestiti da una rete di 160 licenziatari. Ogni anno vengono serviti oltre 340 milioni di panini e più di 34 milioni di caffè e cappuccini. Il servizio delivery è disponibile in 660 locali: un canale che non solo amplia la capillarità della catena, ma incide in modo significativo sull’aumento delle vendite, portando il fast food direttamente nelle case dei consumatori.
Numeri imponenti (e destinati a crescere, poiché il piano di espansione, ricordiamo, prevede di superare i 900 ristoranti entro il 2027), che raccontano molto più di un successo commerciale: fotografano un Paese che accoglie senza esitazione un modello alimentare che altrove mostra segni di cedimento. E allora la domanda non può che essere una: perché un sistema in crisi nella sua patria continua a prosperare così facilmente da noi?
Le radici di una contraddizione
Le ragioni, d’altronde, sono molteplici. Da un lato, c’è la capacità delle catene di intercettare i bisogni della vita quotidiana: pasti veloci, economici, standardizzati e sempre uguali in ogni città. Dall’altro, c’è il peso della crisi economica che spinge una parte della popolazione a privilegiare la convenienza immediata rispetto alla qualità percepita. Secondo una recente indagine, quasi il 28% delle persone tra i 18 e i 34 anni in Italia consuma junk food almeno una volta a settimana.
Bastano pochi euro, un vassoio in mano e un pasto pronto in tre minuti. È il trionfo della praticità, in un’epoca in cui il tempo è percepito come risorsa scarsa e preziosa. Ma è proprio questa dinamica a rivelare il paradosso: mentre altrove i consumatori prendono le distanze da un modello ormai in declino, noi lo abbracciamo con entusiasmo.
Le ombre sul piccolo ristoratore
Un successo, questo delle catene, che si colloca, però, in un contesto più ampio e drammatico della ristorazione: la desertificazione di quella indipendente. Nel 2024, va rimembrato, l’Italia ha fatto i conti con oltre 29mila chiusure di attività di ristorazione, a fronte di appena 10.700 nuove aperture. Il saldo negativo, -19.019 imprese, è stato il peggiore dell’ultimo decennio. Oggi si contano circa 382.680 imprese registrate, ma quelle realmente operative sono scese a 327.850. A soffrire maggiormente sono le attività a conduzione familiare e i locali di fascia medio-bassa: trattorie di quartiere, bar con cucina, ristoranti popolari. Quegli stessi luoghi che, per decenni, hanno rappresentato la gastronomia italiana.
Il problema è prima di tutto economico: caro bollette, inflazione alimentare e aumento dei costi operativi... gestire un ristorante indipendente è diventato ormai proibitivo. Nel triennio 2022-2024 i costi medi sono cresciuti in maniera significativa, costringendo i gestori a ritoccare i listini: solo nel 2023 l’aumento medio è stato del +6%, con un incremento cumulato del +19% rispetto al 2020. E i clienti? Sempre più prudenti. Nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie risultava ancora del 7-8% inferiore rispetto al periodo pre-Covid, e l’inflazione tornata a inizio 2025 ha aggravato ulteriormente la situazione. La conseguenza è chiara: si esce meno, si scelgono occasioni con un valore aggiunto, e la cena fuori “senza pretese” diventa un lusso sporadico.
Polarizzazione del mercato
I dati raccontano poi un mercato spaccato in due: secondo l’ultimo rapporto della Fipe (la Federazione italiana pubblici esercizi), i ristoranti in catena hanno raggiunto l’11% delle visite totali nel fuori casa, generando quasi 10 miliardi di euro su un mercato che supera i 90 miliardi complessivi. Non è una quota maggioritaria, ma, come detto, è in crescita costante. In parallelo, i ristoranti indipendenti di fascia medio-bassa hanno visto calare le visite del 2%, e quelli ancora più economici hanno subito un crollo del 5%.
All’opposto, i ristoranti premium (i cosiddetti "fine dining") hanno registrato un +6% di clientela. Le pizzerie, spesso considerate un’opzione di qualità a prezzo accessibile, hanno segnato un +2%. Il quadro che ne emerge è, in poche parole, quello di un doppio binario: da un lato chi cerca pasti low cost si rivolge sempre più alle catene; dall’altro chi esce lo fa per gratificarsi, riducendo la frequenza ma scegliendo locali di fascia medio-alta.
Oltre i numeri: resistenze e illusioni
La polarizzazione fotografata dai dati non esaurisce la complessità del fenomeno. Anche nel mondo del fast food, infatti, si vedono segnali di adattamento: alcune catene tentano di presentarsi come più attente a qualità, tracciabilità, sostenibilità. Operazioni di immagine più che rivoluzioni, certo, ma utili a capire che il modello non è del tutto monolitico. Allo stesso modo, tra le pieghe delle chiusure, emergono esempi di ristoranti indipendenti che provano a reinventarsi: trattorie che stringono alleanze con produttori di zona, locali che riducono i menu per contenere i costi, altri che sperimentano format ibridi tra tradizione e digitale.
Sono isole di resilienza, esperienze preziose ma ancora troppo marginali per invertire la rotta. Perché la verità è che la forza d’urto delle grandi catene sposta comunque gli equilibri generali. Senza un sostegno strutturale o modelli alternativi credibili, la rete minuta delle trattorie e dei locali popolari rischia di essere travolta. Ed è qui che la questione smette di essere solo economica e diventa culturale: riguarda non più i bilanci, ma l’identità stessa della cucina italiana.
La questione culturale
L’Italia ha infatti costruito la sua reputazione gastronomica sull’artigianalità diffusa, sulle trattorie, sulle ricette tramandate, sul calore dell’accoglienza. Ogni città, ogni borgo, ha storicamente custodito un patrimonio che non si esaurisce nel piatto, ma che abbraccia relazioni sociali e identità.
E la progressiva scomparsa dei ristoranti indipendenti di fascia media rappresenta, dunque, una perdita incalcolabile. È un patrimonio che rischia di dissolversi, sostituito da format con menu fotocopia. Dunque, quanto a lungo potrà reggere questo equilibrio instabile?
Quando scoppierà la bolla in Italia?
Insomma, negli Stati Uniti, la bolla del fast food sembra essere già esplosa, segnalando la crisi di un modello che non è più sostenibile né economicamente né culturalmente. In Italia, al contrario, viviamo in una sorta di illusione collettiva: interpretiamo l’espansione delle catene come un segno di modernità e progresso, quando in realtà stiamo importando un sistema che altrove mostra già segni evidenti di fallimento. È qui che si apre la contraddizione più profonda. Perché se negli Stati Uniti il crollo dei fast food ha costretto a immaginare alternative, nel nostro Paese stiamo vivendo una fase di espansione che rischia di travolgere proprio quel patrimonio che ci ha reso unici.
In Italia il fast food cresce, lo abbiamo visto, perché intercetta un bisogno immediato: prezzo, velocità, riconoscibilità. Ma se diventa un modello leader, perdiamo non solo posti di lavoro qualificati, ma anche una parte essenziale della nostra identità. La sfida non è demonizzare McDonald’s, ma capire come i ristoranti indipendenti possano tornare competitivi, innovando senza snaturarsi. Altrimenti rischiamo che l’Italia del cibo finisca col parlare più americano che italiano. Speriamo solo che la tutela dell’Unesco, in arrivo per la cucina italiana, ci ridia un po’ di sprint.
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