Visintin senza filtri:
tra chef idolatrati, giornalisti complici
e soldi sospetti, ecco chi rovina la ristorazione
Valerio Visintin, critico gastronomico mascherato, si racconta in un’intervista senza filtri: la crisi dell’editoria, il declino della critica indipendente, il ruolo opaco delle guide, l’invasione di fondi e criminalità nella ristorazione. Uno sguardo lucido e pungente su un mondo in cui la verità è spesso sacrificata sull’altare della visibilità
Redattore
Un’intervista senza filtri, ma rigorosamente a volto coperto come impone il personaggio, quella che Valerio Massimo Visintin ha rilasciato a Italia a Tavola. Ma l’anonimato visivo si sostanzia però in una firma riconoscibile, essenziale per un giudizio libero da ogni sorta di vincolo, come troppo spesso non avviene in un sistema dove l’informazione enogastronomica viene sovente schiacciata da marchette e caratterizzato da guide senz’anima e dai tratti oscuri, ridotte a cataloghi per clienti altospendenti. Senza tralasciare un contesto economico che vede affacciarsi nel mondo della ristorazione criminalità organizzata e fondi di investimento, spesso opachi.
L’identità nascosta ma trasparente di Valerio Visintin
Sei l’incubo di molti chef stellati. Ma oggi, con tutti i blog, gli influencer e le sponsorizzazioni mascherate, esiste ancora il critico gastronomico libero?
Lo spazio ci sarebbe, così come c’è sempre stato, perché le persone hanno bisogno di informazioni attendibili, non contaminate dal sospetto di marchette sotterranee. Quello che manca, però, è lo spazio economico: l’editoria di settore - ma, in realtà, tutta l’editoria - è in crisi, e quella gastronomica lo è in modo particolare. Il nostro ruolo, quello del critico gastronomico, è anche più oneroso di altri: dobbiamo spendere per andare al ristorante. E questo è un vincolo pesante. Poi, certo, intorno gira la fuffa più ignobile, ma secondo me la gente lo sa, soprattutto chi davvero frequenta i ristoranti. Quel pubblico che segue gli youtuber e gli influencer, in fondo, li considera più come intrattenimento che come fonti affidabili di consigli. La critica gastronomica avrebbe ancora uno spazio: non l’ha mai davvero sfruttato, perché siamo nati male, prendendo da subito la strada dell’etica e della deontologia contromano. E adesso ci ritroviamo messi malissimo.
Nel tuo lavoro ha mai sentito il peso di un sistema che pretende più riverenza che verità? Quanto paga davvero il settore per il silenzio di troppi?
Per fortuna ho un editore che mi protegge, quindi non sento direttamente il peso di tutto quello che sta accadendo. Però, è chiaro, vivo in questo mondo, e mi trovo circondato - salvo eccezioni, perché per fortuna le eccezioni ci sono - da persone che fanno questo mestiere solo formalmente. Molti si presentano come giornalisti, ma poi le critiche che scrivono sono edulcorate, ingentilite, addolcite, comprate, vendute. E ci sono anche tanti giornalisti che fanno il doppio gioco: fanno l’ufficio stampa, spesso alla luce del sole - perché ormai non ci si fa nemmeno più caso - e continuano a scrivere come giornalisti nello stesso settore, trattando più o meno con gli stessi soggetti. Insomma, è un mondo che mette a dura prova la mia forza d’animo, perché, lo ammetto, sono un po’ stufo. Continuo a fare il mio mestiere, anche se ogni tanto mi viene da dire: “Cambio settore”. Ma ormai è un po’ tardi per cambiare.
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Visintin smaschera i nemici della vera cucina
Le guide gastronomiche sono ancora credibili o sono diventate cataloghi per turisti gourmet?
Sono strumenti anacronistici, perché ormai costerebbe troppo realizzare una guida seria sui ristoranti, andando davvero nei locali, senza farsi pagare da loro, provandoli uno a uno e scartando quelli che non meritano di essere inseriti. È una spesa insostenibile per l’editoria di oggi, e quindi si è trasformato tutto in una fiction alla quale si finge di credere. Lo stesso vale anche per la super guida Michelin, che presenta moltissime ombre e nessuna trasparenza. Anche lei è coinvolta - pur essendo, chissà perché, ancora considerata autorevole e intoccabile - in questo circolo vizioso di pessime abitudini. Della Michelin, in realtà, non sappiamo nulla: non conosciamo i criteri di valutazione, non sappiamo quanti siano davvero gli ispettori, né quante visite vengano effettuate. I numeri che comunicano non tornano, presentano molte incongruenze. È evidente che non ci dicano tutta la verità. E questa dovrebbe essere la più autorevole delle guide... figuriamoci le altre. Le altre, ormai, quasi non esistono più: la guida dell’Espresso, ad esempio, è stata fondata, poi è andata avanti a fatica e oggi sta boccheggiando - ma certamente non è mai stata davvero autorevole negli ultimi quindici anni.
Chi è, oggi, il vero nemico della buona cucina italiana? Le mode? I menu fotocopia? O magari i clienti, che a volte si presentano come più competenti e autorevoli di quanto siano realmente?
Sì, hai detto cose giuste, che sottoscrivo. I nemici della buona cucina italiana sono tanti, ma il nemico numero uno, oggi, è la crisi economica. Colpisce soprattutto nei grandi centri urbani, un po’ meno nelle province. A Milano, ad esempio, gli affitti sono altissimi, quindi chi vuole fare ristorazione parte già con un handicap enorme. Lo stesso vale per Roma, e credo anche per Bergamo ultimamente. Sicuramente per Firenze e Torino. Paradossalmente, è più facile fare una buona ristorazione - che non vuol dire necessariamente “alta cucina” nel senso classico - nelle province piuttosto che nei capoluoghi. Cioè, trovare da mangiare davvero bene è oggi più facile in provincia che nelle grandi città. A Milano, che è il mio campo d’azione principale, continuano ad aprire locali che sono pura fuffa, e che spesso si replicano in serie. Sopravvivono soprattutto le catene, i ristoranti seriali, mentre quelli indipendenti fanno sempre più fatica. Un piccolo imprenditore che vuole aprire il proprio ristorante, cucinare per i clienti con l’unica ambizione di fare bene il proprio mestiere… oggi non ce la fa più.
Visintin, dalla criminalità organizzata ai fondi: l’assalto alla ristorazione
A tuo giudizio, è solo un problema economico, o c’è anche un problema di proposta? Penso, ad esempio, a Milano: solo negli ultimi mesi hanno aperto diverse trattorie tradizionali milanesi.
È così, ne ho parlato anche in un recente articolo: a Milano aprono solo ristoranti romani e milanesi. Quelli romani posso capirli: offrono grandi piatti di pasta asciutta, che fanno parte della tradizione capitolina, riempiono la pancia - e anche con soddisfazione - e costano 16-18 euro. Non vendono altro, ma va bene così, un po’ come una super pizza. Capisco un po’ meno, invece, il boom dei ristoranti “milanesi”. Credo che ci sia anche una mancanza generale di fantasia: tutti cercano visibilità, lottano per conquistarsi uno spazio nelle vetrine dei siti generalisti o di quelli specializzati, ma si dimenticano che la ristorazione, alla fine, richiede soprattutto una cosa: che i conti tornino. E purtroppo oggi non possiamo ignorare un fatto grave.
Cioè?
Non possiamo ignorare che molti di questi ristoranti, almeno uno su cinque nelle grandi città, siano inquinati da un sottofondo mafioso. La criminalità organizzata è presente in maniera più o meno invasiva, ma c’è, ed è una realtà con cui dobbiamo fare i conti. Poi c’è la nuova ondata: quella dei fondi finanziari, di cui non si sa praticamente nulla. Non si conosce chi ci sia dietro, non si sa come nascano né dove finisca esattamente la loro gestione economica. Questi fondi aprono catene di ristoranti in serie oppure acquistano immobili, sfrattano i locali esistenti e ci piazzano dentro nuove catene. Magari non sono direttamente affiliate al fondo, ma ne fanno comunque parte, gravitano in quell’orbita. Il punto è che molti di questi posti non hanno un reale interesse a far funzionare bene il ristorante. L'importante è che il ristorante esista, perché è quello il vero business: serve a ripulire denaro per le mafie e a muovere capitali per i fondi finanziari.
E così diventa sempre più difficile stare sul mercato.
Sì, è sempre più difficile. L’offerta è nettamente superiore alla domanda. Anche se ogni anno in Italia il numero complessivo di ristoranti diminuisce, restano comunque troppi, e quindi stare sul mercato diventa quasi impossibile. Il boom che c’è stato una decina d’anni fa lo stiamo ancora pagando. Mi riferisco a quella grande illusione degli anni Dieci, intorno al 2015 o giù di lì, quando sembrava che la ristorazione fosse diventata una sorta di bene rifugio per qualunque imprenditore. In realtà non lo era nemmeno allora - e oggi, certamente, non lo è più. E poi mancano i clienti, i miei clienti: la gente guadagna sempre meno, o meglio, il potere d’acquisto è sempre più basso. Con quali soldi si va fuori a cena? A Milano, ad esempio, negli ultimi due anni i prezzi sono aumentati di circa il 40% - non tanto sulle pizze, ma sui primi e i secondi nei ristoranti. Ma chi è che, in Italia, ha visto crescere il proprio reddito del 40% nello stesso periodo?
Visintin contro lo “chefismo” e la spettacolarizzazione della cucina
La sala vale quanto la cucina? O siamo ancora schiavi dello “chefismo” mediatico da copertina?
Lo "chefismo" - mi piace molto come termine - è oggi imperante in tutti i ristoranti della fascia più alta della ristorazione. Ma lo si ritrova anche appena un gradino sotto. Ci sono quei 350-400 chef premiati con stelle o altri riconoscimenti, e poi ce ne sono almeno altrettanti - se non di più - che aspirano a entrare in quell’élite. Questo sistema, però, non funziona. È un sistema malato, che snatura la cucina. Trasforma un mestiere nobilissimo - perché di mestiere si tratta, e non di arte sacra - in una gara podistica, in una tensione costante, quasi agonistica. È una follia, insomma.
A tuo giudizio qual è il piatto che i grandi ristoranti sbagliano di più e perché continuano a proporlo?
Non lo so, sinceramente. I grandi ristoranti, secondo me, sbagliano parecchio. Non tanto sui singoli piatti - che spesso si copiano l’un l’altro - ma proprio nelle modalità, nella ritualità del servizio. Il menu degustazione, ad esempio, ha stancato metà dei clienti. È diventato un passaggio obbligato, spesso interminabile, pieno di assaggi che ti impediscono davvero di goderti qualcosa fino in fondo. Per apprezzare un piatto ci vogliono almeno quattro forchettate, invece si viene sommersi da una sfilza di mini porzioni, spesso anche in contrasto tra loro. Poi c’è questa mania - ormai dovrebbe essere superata - di inserire in ogni boccone tutti gli estremi: se qualcosa è leggermente dolce, allora ci mettono l’acido; se è morbida, deve esserci il croccante. Tutte queste antinomie del gusto hanno, francamente, stancato. Non se ne può più. E il punto è che nessuno osa dirlo, perché tutto questo viene ancora chiamato “arte”. Ma in realtà si continua a girare intorno a quattro idee piuttosto infantili che hanno annoiato tutti.
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C’è mai stato uno chef che ti ha fatto vacillare? Non sul piatto, ma sull’umanità?
Cerco di non avere rapporti con gli chef. Quando vado al ristorante, sono un cliente qualsiasi, non riconosciuto. Se lo chef viene a salutare, bene, altrimenti cerco di restare molto “schiscio”, come si dice a Milano. Uno che, per esempio, è sempre sorridente e carino è Aprea, che ha questa comunicativa napoletana molto calda. Ma il pasto che ho consumato da lui - sia tempo fa che più recentemente - è stato tra i più noiosi e meno soddisfacenti degli ultimi anni. Non lo so, dovrebbero davvero rivedere il proprio repertorio con uno sguardo nuovo. Forse avrebbero bisogno di qualcuno che li consigli.
Di cosa avrebbero bisogno?
Una volta lo chef, che era semplicemente il cuoco, era comunque sì importante e dominante, ma nei grandi ristoranti c’era sempre qualcuno, spesso il proprietario, che gli dava delle indicazioni. Oggi invece sono intoccabili. Né la critica né la struttura aziendale in cui operano riescono a metterli in discussione. E questo non li aiuta a migliorarsi, perché per crescere serve il confronto, serve qualcuno che esprima un parere diverso. Ma chi li giudica, oggi? Nessuno. Basta ascoltare le banalità che dice Bottura: non c’è una sola persona che abbia il coraggio di dirgli "ma smettila, stai zitto, che cosa stai dicendo?" Anche a livello espressivo, verbale, comunicativo: dimostrano chiaramente di aver perso il senso della realtà.
Visintin: dietro la maschera, un giornalista etico
Hai mai pensato di aprire un tuo ristorante?
È un lavoro difficilissimo, che richiede una quantità di competenze praticamente infinita, che io certamente non ho. Bisogna sapere di cucina, conoscere bene le materie prime, saper fare i conti, essere bravi a gestire il personale, ma anche capaci di comunicare con il pubblico. Insomma, è forse uno dei mestieri che richiede più talenti in assoluto. E invece di insistere nel definirsi artisti, io al loro posto sarei già fiero solo di possedere questa lunghissima lista di competenze straordinarie. Io, personalmente, non ne sarei capace: non ho queste qualità nel mio dna. E poi fanno anche una vita durissima: vivono al contrario rispetto al resto del mondo - quando gli altri si divertono, loro lavorano. E lavorano tanto, lavorano duro.
Ti manca l’applauso a volto scoperto?
No, quello no. Io scrivo, e potrei anche omettere il mio volto perché, appunto, scrivo: ci metto la firma, ci metto le mie opinioni e mi assumo tutti i rischi che questo comporta. Quindi non mi importa nulla di mostrare il volto - non fa parte del mio corredo professionale. Certo, oggi senza volto "non esisti", ma a me va benissimo il mascheramento che porto in giro. Non mi mostro perché, se andassi in un ristorante a volto scoperto, riceverei sicuramente dei favori - non tanto perché sono io, ma perché scrivo per il Corriere della Sera. Godrei di attenzioni particolari che altererebbero la mia percezione reale di quel ristorante. E poi si creerebbe una vicinanza emotiva con lo chef, un coinvolgimento umano che porterebbe, anche inconsciamente, a dei debiti di riconoscenza, o comunque di simpatia. E questo, per un critico, è inaccettabile. Il critico non deve avere debiti, né emotivi né morali. Questa dovrebbe essere una regola condivisa da tutti i miei colleghi, ma purtroppo non lo è. Quasi nessuno la segue. E infatti poi si leggono recensioni che non sono recensioni, ma peana: liriche agiografiche a favore di questo o di quell’altro. E quando invece c’è da colpire, lo fanno spesso con le trattorie o con i ristoranti di medio cabotaggio, mai con i nomi altisonanti.
Dietro la maschera e il critico, chi è Valerio Visintin?
Sono una persona che prende molto sul serio il proprio lavoro, senza però prendersi troppo sul serio. Ed è anche il motivo per cui ho scelto, come forma di mascheramento, una modalità goliardica: molto estrema, buffa, insomma. Però sono un giornalista, e credo nei valori del giornalismo. Credo che vadano difesi a tutti i costi. Noi, certo, parliamo di pasta asciutta e di altre “sciocchezze”, ma il giornalismo, di per sé, è una delle colonne della democrazia, oltre che del vivere civile. Va difeso con forza, perché mai come in questo momento è stato così in difficoltà, messo alle strette, all’angolo. La gente non è più disposta a pagare per avere un’informazione decente, verificata, trasparente. E invece dovrebbe farlo. Ognuno, nel suo piccolo, dovrebbe fare il massimo per difendere questa professione, che non è una professione come le altre: ha un peso specifico altissimo nel contesto sociale. Appena si insedia una dittatura, la prima cosa che fa è assoggettare l’informazione. Ecco perché i miei colleghi che si comportano male non si rendono conto di quanto sia grave, in un contesto più ampio, la loro infrazione quotidiana. Oppure, peggio, non gliene importa nulla. E invece dovrebbero farsene carico. Oppure, semplicemente, cambiare mestiere. Perché si può sempre cambiare lavoro. Quando ti dicevo che ogni tanto vorrei cambiare mestiere, lo dicevo anche per questo. Sono trent’anni che batto sugli stessi tasti, e vedo le cose peggiorare di anno in anno. A volte ho la sensazione di cercare di fermare il mare con le mani. E questo mi dispiace. Perché io ci credo, alla mia professione. E credo nell’utilità che questa professione può avere, anche oggi.
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