È la ristorazione
che porta i turisti
(non il contrario):
i numeri contro
il vuoto della politica
La cucina italiana è una superpotenza economica e culturale: 251 miliardi a livello globale, 83 in Italia. I turisti scelgono la meta per ciò che mangeranno, con una spesa che ha superato i 54 miliardi e prenotazioni estive in crescita a doppia cifra. Ma senza un piano nazionale, formazione e regole condivise, il sistema rischia di perdere competitività e identi
direttore
Non sono certo le cartoline o le mostre d’arte a muovere il turismo italiano: sono i ristoranti. I numeri lo dicono con chiarezza: la cucina italiana è un’industria da 251 miliardi nel mondo e la nostra ristorazione nazionale vale 83 miliardi. Lo attesta una ricerca di Deloitte, una delle più autorevoli istituzioni di analisi finanziarie. Al momento i viaggiatori stranieri spendono 54,2 miliardi in Italia e una quota crescente sceglie la meta per ciò che mangerà, confermano una tendenza che era in atto da prima del Covid e che da sempre Italia a Tavola ha segnalato.
Parliamo di un comparto determinante per l’immagine del nostro Paese e del suo stile di vita invidiato in tutto il mondo, ma che ancora stenta ad avere i giusti riconoscimenti. Ed è qui che si misura il vuoto: mentre i locali tengono in piedi la reputazione e la spesa turistica, continua a mancare un progetto nazionale per trasformare questa forza in strategie politiche. Anche perché dietro - o meglio sopra - la tavola c'è il mondo dell’enogastronomia italiana che oggi, a fronte degli imprevedibili scenari innescati dai dazi americani, ha più che mai bisogno dei suoi ambasciatori più autentici, che sono i ristoranti e i cuochi italiani in giro per il mondo, troppo spesso dimenticati.
Nel 2024 la cucina italiana valeva, come detto, 251 miliardi di euro (con un aumento su base annua del 4,5%), pari al 19% del valore della ristorazione mondiale organizzata, superando di gran lunga l’attrattività di tante altre cucine importanti, francese, spagnola, cinese o giapponese che siano. L’Italia è ovviamente tra i principali mercati con 83 miliardi, mentre il peso delle catene è salito in 5 anni dal 7% al 10%. La cucina e la ristorazione non sono quindi solo identità, cultura e tradizione: sono anche, e soprattutto, un'infrastruttura economica e un asse portante del Pil nazionale.
Il turismo estero segue i ristoranti e il made in Italy
Nel 2024 la spesa dei viaggiatori stranieri in Italia aveva toccato 54,2 miliardi di euro, trainata da città d’arte e motivazioni culturali. Quest’anno è andata meglio, stando almeno alle sole prenotazioni online e ai ristoranti che sono in crescita a doppia cifra rispetto al 2024 e al 2023.
Nel 2024 i viaggiatori stranieri hanno speso 54,2 miliardi in Italia: sempre più turisti scelgono la meta in base alla cucina
La clientela internazionale e uno scontrino medio più alto hanno compensato ampiamente quello che finora è emerso come un rallentamento dei consumi nazionali. Un trend che - almeno finché la situazione internazionale non cambierà… e Trump permettendo - conferma che è la ristorazione a orientare i flussi, non viceversa. Deloite e Banca d’Italia non hanno dubbi in proposito.
Il vuoto di regia: grandi numeri, poche politiche
A fronte di risultati evidenti, manca però un progetto Paese che riconosca la ristorazione come asse strategico del turismo: formazione per sala e carta dei vini, semplificazioni, standard di qualità riconoscibili, accesso al credito e difesa strutturale dall’italian sounding. Il possibile riconoscimento Unesco della cucina italiana (l’esito tecnico sarà il 10 novembre e il voto a dicembre in India) rappresenterà una nuova spinta reputazionale, ma non è un piano industriale. Su questo l’assenza di concretezza da parte del Ministro pesa negativamente.
Cosa funziona davvero: il “modello ristorante”
Gli operatori hanno reagito finora con digitalizzazione, automazione dove serve, semplificazione dei menu e format esperienziali. In questo è indicativo il monitoraggio che fa Fipe, di fatto l’unica realtà oggi in grado di rappresentare a 360 gradi il variegato mondo della ristorazione italiana.
Parliamo di un comparto in profonda trasformazione in cui si vanno ampliando le differenze - e le distanze - fra la fascia del fine dining, quella media per lo più a gestione famigliare e le catene. È in quest’ultima area che c’è forse maggiore movimento e più investimenti di capitale con obiettivi Fast Food, Healthy e Pizza. Tendenze che, se non gestite correttamente, potrebbero però metter in crisi il sistema, visto che la reputazione internazionale si basa sul modello tipico del ristorante/trattoria italiano, che è quello che a conti fatti sta perdendo terreno.
E a sostituire questi locali, soprattutto nei centri storici e nelle località turistiche, sono soprattutto catene che spesso puntano anche sul “finto tipico”. Per ora il modello regge e il risultato è prodotto-Paese servito in tavola, tanto che per Tommaso Nastasi, di Deloitte, «L’Italia mostra segnali di trasformazione rapida, con spazio per format digitali e scalabili. I QSR (Quick Service Restaurant, in italiano ristorazione veloce, il “fast food”) continueranno a trainare».
Anzi, sempre secondo Deloitte, se ben progettati, i fast food riempiono i vuoti commerciali nei centri storici e funzionano anche come “ponte” verso la tavola tradizionale. Una visione su cui però abbiamo non pochi dubbi, visto il degrado di tante zone proprio per l’affollamento di troppe insegne di catene.
Perché intervenire adesso
La domanda c’è (prenotazioni e spesa lo dimostrano), la cucina italiana è già una superpotenza economica e simbolica, e l’orizzonte Unesco può amplificarla. A questo punto qualcuno può chiedersi perché segnaliamo l’assenza delle istituzioni. In punto è che il compito della politica non è salire in foto a piatto finito: come indica la Banca d’Italia è necessario mettere a terra regole, formazione e incentivi per trasformare i numeri in politica industriale del turismo.
Cinque mosse che il governo dovrebbe varare (subito)
Senza volerci sostituire ai partiti crediamo che ci siano almeno 5 punti sui quali le istituzioni, a partire dal Governo, dovrebbero mettere mano:
- Formazione-lavoro: potenziare le scuole di gestione e alta formazione per sala/carta dei vini e garantire crediti d’imposta a chi certifica competenze (non solo apprendistato di cucina).
- Standard di qualità: un marchio che certifichi realmente lo stile italiano, da noi e nel mondo, (prodotto, tecnica, servizio e carta vini) collegato a incentivi e promozione estera; task force permanente contro l’italian sounding.
- Semplificazioni: sportello unico Horeca e norme uguali per tutti i diversi soggetti che somministrano cibo (oggi diverse fra commercianti, artigiani e agricoltori); regole chiare su dehors, movida e orari con patti di quartiere (target: ridurre tempi autorizzativi del 50%), riordino dei codici Ateco.
- Transizione digitale: voucher per sistemi di prenotazione, pricing/yield e integrazione con DMO (ente di gestione della destinazione) e hotellerie; dati condivisi per misurare l’impatto sulla spesa turistica.
- Accesso al credito: garanzie per investimenti green (efficienza, riduzione sprechi e riuso imballaggi) e per upskilling (aggiornare e potenziare le competenze di chi già fa un certo lavoro, per farlo meglio o a un livello più alto) di sala e cucina.
Se il turismo italiano cresce è perché l’Italia della tavola lavora tutti i giorni. I dati lo dicono: la ristorazione non è un effetto collaterale del viaggio, lo orienta. Il compito della politica è semplice: mettere a terra standard, formazione, semplificazioni e credito. Il resto lo faranno i ristoranti: come sempre, a porte aperte
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