domenica 9 novembre 2025

Espresso italiano, un gusto “cattivo”?...

 

Espresso italiano, 

un gusto “cattivo” 

che forse ci piace troppo

Dietro il mito dell’espresso italiano si nasconde una verità scomoda: un gusto bruciato e amaro che abbiamo imparato ad amare per abitudine, confondendo la forza con la qualità e la routine con l’eccellenza. Ma è davvero questo il nostro orgoglio nazionale, o solo un mito che nessuno ha più il coraggio di smentire?

di Luca Bassi

Espresso italiano, un gusto “cattivo” che forse ci piace troppo

C’è un luogo comune duro a morire, una convinzione collettiva che resiste a ogni prova del palatoquella secondo cui l’espresso italiano sarebbe il migliore del mondo. È il nostro orgoglio quotidiano, l’emblema di un’identità nazionale che si consuma in trenta millilitri di liquido scuroEppure, a ben guardare, l’espresso che beviamo ogni giorno racconta un’altra storiaQuella di un Paese che ha trasformato una bevanda straordinaria in un’abitudine mediocre, e che continua a difenderla come simbolo di eccellenza mentrein realtàne ha smarrito da tempo la qualità. È l’orgoglio cieco di un popolo che ha fatto del caffè un rito identitarioun gesto sacroun simbolo nazionaleche perònella maggior parte dei casicontinua a bere qualcosa di cattivoAmarobruciatoeccessivamente estratto. Un gusto standardizzato, uguale ovunque, che abbiamo imparato a riconoscere come “il vero espresso italiano”.

Il risultato di una scarsa cultura del prodotto

Eppure, quel gusto non è altro che il risultato di decenni di scarsa cultura del prodotto. Dalla moka del dopoguerra alle capsule di oggi, l’Italia ha costruito una religione domestica del caffèma senza mai davvero conoscerlo. Dopo la ricostruzione, il bar è diventato un luogo sociale prima che gastronomicol’espresso non era una bevanda da intenditorima un rito di comunitàSi andava al bar per parlare, per incontrarsi, per un gesto quotidiano che dava conforto e identità. Ma intantodietro il banconela qualità del prodotto scendevaNegli anni ’60 e ’70 le torrefazioni industriali hanno iniziato a diffondersi in modo capillareIl caffè veniva tostato scurospesso scurissimoper coprire difetti di selezione e di provenienza.

Espresso italiano, un gusto “cattivo” che forse ci piace troppo

L’espresso italiano, frutto di ignoranza diffusa e qualità trascurata

In pochi si chiedevano da dove arrivassero quei chicchi: Brasile? Vietnam? Etiopia? Kenya? A nessuno interessava davvero. Bastava che la tazzina fosse calda e che il gusto fosse forte. “Amaro uguale buono”, questo è diventato l’assioma nazionaleNegli anni successivil’esplosione dei bar - spinta anche dal fenomeno del comodato d’uso gratuito con cui le torrefazioni fornivano macchineattrezzature e arredi chiavi in mano ha completato il quadroBastava poco per aprire un bar: qualche corso rapido, la macchina in comodato, una fornitura obbligatoria di miscela. Così si è diffusa una nuova generazione di baristi improvvisati, più operatori di macchine che artigiani del caffè. Il risultatoUna marea di locali tutti ugualiche servono espressi identicifortiamaricorti.

In questo modo, come detto, il gusto si è standardizzatola cultura si è fermata, e il mito dell’espresso italiano si è cristallizzato in un’illusione collettiva. Nel frattempo, fuori dai confini nazionaliil mondo del caffè è cambiato. In Australia, in Scandinavia, in Corea del Sud o negli Stati Uniti, sono nate nuove scuole e nuove sensibilità. I baristi hanno cominciato a studiare l’origine dei chicchi, la loro varietà botanica, la chimica dell’estrazione. È nato il movimento dello specialty coffeeche ha riportato il caffè alla sua complessità originariaun prodotto agricolocon territoristagionistorie e persone dietro ogni tazza. In Italia, però, queste parole suonano ancora come un linguaggio straniero.

Perché l’italiano medio beve caffè cattivo?

Quindi, perché l’italiano beve uno dei peggiori espressi del mondoLa risposta, in realtà, è sempliceperché non lo saNon sa riconoscere un difettonon sa distinguere una tostatura corretta da una bruciatanon ha mai imparato che un espresso può essere dolce e rotondo. Ma dietro l’ignoranza sensoriale si nasconde un sistema intero - culturale, economico e industriale - che ha reso il cattivo caffè la norma. Per decenni, il gusto amaro è stato sinonimo di autenticità. È un retaggio culturale, ereditato da un Paese che ha imparato a diffidare della dolcezza e a identificare la forza con la verità. Nell’immaginario italianoun caffè troppo morbido è un caffè annacquato”, un caffè da americani”. L’espresso deve essere brevescuroquasi violentouna scossa che risveglia più che un’esperienza da gustare. È un modello costruito su pragmatismo e fretta, non su piacere e consapevolezza.

Espresso italiano, un gusto “cattivo” che forse ci piace troppo

L'italiano non sa distinguere una tostatura corretta da una bruciata

Poi c’è il fattore economicoIl caffè è un prodotto che si vende a margini bassissimiuna materia prima povera trasformata in simbolo quotidianoPer far quadrare i contimolti bar scelgono la miscela più economicaLe torrefazioni, a loro volta, abbassano la qualità per mantenere il prezzo competitivoÈ una catena che penalizza tuttiil produttore che riceve menoil torrefattore che deve tostare scuro per uniformareil barista che serve un prodotto mediocre, e il consumatore che finisce per considerarlo normalepersino “buono”. Ma la ragione più profonda è psicologicaGli italiani sono convinti di saperne di caffè perché ne bevono tanto (anche se non sono i primi consumatori al mondo). È l’effetto dell’abitudineconfondere la frequenza con la competenza. Nessuno si domanda se quel gusto amaro che raschia la gola sia davvero “buono”: è semplicemente “come dev’essere”. Non si assaggia, si ingoia. Non si pensa, si ripete. L’italiano beve caffè cattivo perché non sama soprattutto perché non vuole sapere.

Il consumatore italiano non è mai stato educato

La verità è che il consumatore italiano non è mai stato educatoNessuno gli ha spiegato che un caffè può essere dolce senza zuccheroche un espresso ben estratto non deve raschiare la golache il colore del chicco dice molto sul rispetto della materia prima. Le torrefazioni, per decenni, hanno avuto tutto l’interesse a mantenere questa ignoranza. È più comodo vendere un prodotto standardizzato, confezionato in un racconto di “tradizione”, che investire in cultura, formazione e trasparenza. E i baristispesso vincolati da contratti rigidi o semplicemente privi di strumentihanno perpetuato un modello di consumo che scambia la forza con la qualità.

Espresso italiano, un gusto “cattivo” che forse ci piace troppo

Il consumatore italiano non è mai stato educato alla cultura del caffè

Il risultato è un cortocircuito culturalel’Italia, patria autoproclamata dell’espresso, è oggi tra i Paesi meno consapevoli del valore reale del caffè che beve. Siamo affezionati a una caricatura di gusto, incapaci di distinguere un difetto di tostatura da una scelta stilistica. Persino il lessico tradisce la nostra inconsapevolezza: “miscela italiana” è diventato sinonimo di qualità, quando in realtà è solo un modo elegante per non dire nulla sull’origine del prodotto.

Il caffè italiano deve ripartire dalla cultura

Oggi, mentre il mondo guarda avantil’Italia resta ferma su una montagna di certezze vecchie. Nei bar si parla ancora di miscela “robusta” come se fosse un pregio, si serve un espresso bruciato con fierezza, si ignora che ogni origine ha una storia, un profilo sensoriale, un volto umano dietro la coltivazione. La cultura del caffè - quella vera, fatta di conoscenza, rispetto e consapevolezza - è rimasta ai marginirelegata a poche torrefazioni indipendenti virtuose e a una manciata di baristi curiosi che cercano di cambiare le cose. Il problema non è solo il barista improvvisato o la torrefazione industriale. Il problema è un intero Paese che ha smesso di farsi domandeChe si accontenta dell’abitudine e della retoricae confonde la forza con la qualitàPerché il vero espresso italianoquello buono davveroè quello che ancora non conosciamo.

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