La cucina non si guarda... si fa!
La teoria vincente di Chef Rubio
Il vincitore del sondaggio di Italia a Tavola nella categoria Cuoch
i e Pasticceri racconta la sua passione per la cucina, la volontà trasmettere l’essenza dei prodotti e il suo legame con la cucina asiatica. Definisce la sua cucina vera, essenziale e minimalista: il successo di molti piatti sta nella loro semplicità
i e Pasticceri racconta la sua passione per la cucina, la volontà trasmettere l’essenza dei prodotti e il suo legame con la cucina asiatica. Definisce la sua cucina vera, essenziale e minimalista: il successo di molti piatti sta nella loro semplicità
Chef Rubio (nelle foto), al secolo Gabriele Rubini, 33 anni, segno zodiacale cancro, ex rugbista e nessuna stella, ha collezionato nel sondaggio 2015 di Italia a Tavola per la categoria Cuochi e Pasticceri ben 17.280 preferenze. Niente male per un giovane considerato un outsider nel mondo della cucina, un anti-chef, uno che le mani se le sporca davvero. Immune da mode o tendenze, al limite della provocazione, bello e tatuato quanto riservato e competente, si sente a casa in qualsiasi luogo del mondo esplorandone con curiosità le cucine. Chef Rubio non sembra tuttavia aver pagato grandi prezzi per accedere alle luci della ribalta, se non quello di aver seguito ostinatamente la strada scelta a 21 anni. Ora il successo è arrivato davvero, con un milione e più di followers sui social.
Foto: Carbonelli & Seganti
Frutto di una sofisticata operazione di immagine o piuttosto un segnale che la ricerca e la creatività hanno occupato un po' troppo i fornelli? Questo chef senza ristorante ha collezionato ascolti record sul canale tv Dmax, con tre serie di “Unti e Bisunti” sullo street food. È stato anche il “pastore tatuato” del presepe di San Gregorio Armeno, riconoscimento che per i napoletani vale come le impronte delle star sul cemento del marciapiede di Hollywood. Ma anche al di là dell'Atlantico la sua personalità ha lasciato il segno: Variety lo ha definito come l' “International star you should know” mentre Star comics lo ha raffigurato come l'eroe all'amatriciana che combatte le multinazionali del fast food.
Ha scritto anche, prima di altri, un libro sulla dieta mediterranea, alla ricerca del cibo più vero. Cerchiamo di conoscere meglio Gabriele - così lo chiamano i suoi amici - un ragazzo dall'eclettica personalità che ha detto della sua cucina: «È uno strumento per parlare di cultura, di popoli: l'arte culinaria è solo un tramite, mentre il punto di partenza e quello di arrivo sono sempre le persone, il loro vissuto, la loro storia, il territorio». Lo incontriamo mentre è al seguito della nazionale di rugby, di cui ha fatto parte. Un amore mai archiviato.
Si aspettava di superare nel gradimento grandi personaggi della cucina, vere e proprie star? Cosa cambia ora per lei?
Mentirei se dicessi che è stata una sorpresa. Già lo scorso anno ero stato molto votato e il risultato del gioco, questo ranking (termine sportivo per classifica) mi ha dato molta soddisfazione perché vuol dire che in questi ultimi tre anni sono stato compreso nel mio intento di valorizzare tradizioni che stanno scomparendo, la cucina vera. Per quanto riguarda la proiezione di me stesso, questa affermazione non cambierà nulla, come nel sondaggio dell'anno scorso, o l'anno prossimo se arriverò ultimo.
È entrato nel mondo della cucina per necessità, per lavorare mentre era in Nuova Zelanda impegnato nel rugby. Un approccio originale, ma c'era già la passione? E poi perché ha voluto iscriversi ad Alma, la scuola di Gualtiero Marchesi?
Certo, la passione c'era da sempre, dal grembo materno. Ma per tutti arriva il momento di seguire il proprio karma. A 21 anni ho deciso che sarei diventato cuoco, col mio stile e il mio percorso anche se difficoltoso e pieno di ostacoli, ma anche con la mia faccia perché non ci si può nascondere dietro un piatto o dietro un ristorante. Sapevo che Alma mi sarebbe servita per essere competitivo sul mercato più preparato e completo, soprattutto con le mie aspettative. Come professionista, ero certo che quella scuola poteva darmi una freccia in più da scoccare nel mio arco, e ho fatto tesoro degli insegnamenti di grandissimi professionisti per essere in grado di controbattere a ogni domanda e soprattutto a quelle che venivano da me.
La tv è inondata di trasmissioni di enogastronomia che replicano se stesse. È una sorta di bulimia, consumiamo virtualmente più cibo di quanto ne mangiamo. È un sintomo o la malattia?
Il problema è che non ne consumiamo di cibo. Amiamo guardarlo, perché non ne produciamo più e non ne conosciamo la materia e l'essenza. Preferiamo che siano altri a proporcelo, persone che si elevano a mega detentori della verità lasciando agli altri mille quesiti. Tutti dovrebbero cominciare a riprendere in mano, a conoscere, l'arte casearia, i principi della fermentazione o della frollatura per contrastare quei pochi che negli anni hanno acquisito un potere visibile e che stanno facendo man bassa di cervelli e di sicurezze. Il mio messaggio è quello di riportare le persone a fare e non a guardare.
La monotonia dell'innovazione e della creatività a tutti i costi non rischia di vanificare i risultati che pure ci sono stati nella crescita qualitativa del settore?
I risultati ci sono stati ma sempre in maniera molto autoreferenziale e parlo anche dei miei predecessori e di quelli che vengono spesso menzionati. Il problema è stato che, esplosa la bolla del benessere degli anni Ottanta, quei pochi di cui parliamo che hanno avuto la cultura, la facoltà e la possibilità economica di poter viaggiare sono ritornati con la loro verità, raccontando una storia. Così nessuno si è formato con la verità del singolo, con una propria cultura e una propria opinione. Oggi invece molti giovani proprio a causa - fortunatamente - di questo fenomeno di massa che coinvolge il mondo della cucina vogliono approfondire la loro conoscenza ritagliandosi un angolo di paradiso e non guardano più a quelle persone come degli dei in terra, ma come a persone normalissime che fanno della loro passione un lavoro.
La sua cucina vuole essere vera, concreta. Quanto influisce in questa pratica la sua passione per la cucina asiatica, estremamente variegata ma certo non effimera?
La mia cucina è vera, essenziale, minimalista, pura, ed è strettamente legata all'asiatica da quando ho cominciato a studiarne le particolarità che l'hanno contraddistinta nei secoli e nei millenni. Non è detto che per fare una cosa buona o anche rozza - come potrebbe essere una Pajata o una Carbonara - si debba per forza perdere in gusto se si presenta in forma essenziale e senza fronzoli. Credo che in questo momento storico siamo nella possibilità di mantenere un gusto, una tradizione nella maniera più semplice possibile. Sono super allineato alla cucina asiatica e sono convinto che al momento sia l'unica che possa ancora dare delle linee guida non solo nei contrasti e negli abbinamenti ma per la logica, per il senso, che ci sono dietro. Ci sono troppi creatori di illusioni con parole come fantasia e creatività.
Lei ha detto che in tv puntava a un pubblico di nicchia per poter dire liberamente la sua e per poter mostrare il suo concetto di cucina come paradigma universale di convivialità, interazione culturale, recupero sociale e integrazione. Per questo ha voluto studiare il linguaggio dei segni (LIS) presso l'Issr (Istituto statale sordi) di Roma?
Sì, per loro ho creato una video-ricetta di Cacio e Pepe, la prima di una serie. Altre tre sono in preparazione e saranno realizzate nei prossimi mesi.
Intervista flash
Il tratto principale del suo carattere?
Sono un maniaco della perfezione. Esigo molto da me stesso e di conseguenza dagli altri. Se per alcune cose posso sembrare tollerante, specialmente in cucina divento un super conservatore, un integralista della bellezza e dell'essenza. Non sopporto le storpiature occidentali di piatti giapponesi o cinesi. Nello stesso tempo posso essere stravagante, ironico, machiavellico... ecco, un ossimoro.
Il suo difetto maggiore?
Forse la purezza con cui mi rapporto al mondo: non sono mai prevenuto. A volte questo mi regala grandi e belle sorprese, ma volte mi espone al rischio di essere ferito, accorgendomi che qualcuno sta pianificando qualcosa alle mie spalle o sta cercando di cogliermi in fallo.
Il pregio a cui tiene di più?
La curiosità.
Il vino che preferisce?
Il Prosecco. Prima non lo consideravo tra i più interessanti, poi stando in Veneto mi ha rapito. Anche la conoscenza di molti produttori mi ha aiutato ad apprezzarlo.
Il piatto che preferisce?
Le sarde in saor, perfette con il Prosecco.
Il suo colore preferito?
Il rosso.
Il suo hobby?
Scrivere, fotografare, ascoltare musica. Tutta quella possibile e immaginabile. Ultimamente ascolto rap, pop, jazz, hip hop e contaminazione del jazz col hip hop.
Il suo sport?
Crossfit con mio fratello.
Il nome del suo cane?
Shanti, come la preghiera indiana. Ma io sono lo zio, perché è di mio fratello.
Se non vivessi a Frascati/Roma dove vorresti vivere?
In realtà non ho una casa mia. Vivo praticamente in treno. Tra la casa dei miei che stanno a Frascati e quella di mio fratello a Roma. Comunque vivrei sicuramente a Tokyo.
Lo scrittore che preferisce?
Haruki Murakami, Chuck Palahniuk, Banana Yoshimoto e molti altri.
Il regista che preferisce?
Darren Aronofsky (Requiem for a dream).
Foto: Carbonelli & Seganti
Frutto di una sofisticata operazione di immagine o piuttosto un segnale che la ricerca e la creatività hanno occupato un po' troppo i fornelli? Questo chef senza ristorante ha collezionato ascolti record sul canale tv Dmax, con tre serie di “Unti e Bisunti” sullo street food. È stato anche il “pastore tatuato” del presepe di San Gregorio Armeno, riconoscimento che per i napoletani vale come le impronte delle star sul cemento del marciapiede di Hollywood. Ma anche al di là dell'Atlantico la sua personalità ha lasciato il segno: Variety lo ha definito come l' “International star you should know” mentre Star comics lo ha raffigurato come l'eroe all'amatriciana che combatte le multinazionali del fast food.
Ha scritto anche, prima di altri, un libro sulla dieta mediterranea, alla ricerca del cibo più vero. Cerchiamo di conoscere meglio Gabriele - così lo chiamano i suoi amici - un ragazzo dall'eclettica personalità che ha detto della sua cucina: «È uno strumento per parlare di cultura, di popoli: l'arte culinaria è solo un tramite, mentre il punto di partenza e quello di arrivo sono sempre le persone, il loro vissuto, la loro storia, il territorio». Lo incontriamo mentre è al seguito della nazionale di rugby, di cui ha fatto parte. Un amore mai archiviato.
Si aspettava di superare nel gradimento grandi personaggi della cucina, vere e proprie star? Cosa cambia ora per lei?
Mentirei se dicessi che è stata una sorpresa. Già lo scorso anno ero stato molto votato e il risultato del gioco, questo ranking (termine sportivo per classifica) mi ha dato molta soddisfazione perché vuol dire che in questi ultimi tre anni sono stato compreso nel mio intento di valorizzare tradizioni che stanno scomparendo, la cucina vera. Per quanto riguarda la proiezione di me stesso, questa affermazione non cambierà nulla, come nel sondaggio dell'anno scorso, o l'anno prossimo se arriverò ultimo.
È entrato nel mondo della cucina per necessità, per lavorare mentre era in Nuova Zelanda impegnato nel rugby. Un approccio originale, ma c'era già la passione? E poi perché ha voluto iscriversi ad Alma, la scuola di Gualtiero Marchesi?
Certo, la passione c'era da sempre, dal grembo materno. Ma per tutti arriva il momento di seguire il proprio karma. A 21 anni ho deciso che sarei diventato cuoco, col mio stile e il mio percorso anche se difficoltoso e pieno di ostacoli, ma anche con la mia faccia perché non ci si può nascondere dietro un piatto o dietro un ristorante. Sapevo che Alma mi sarebbe servita per essere competitivo sul mercato più preparato e completo, soprattutto con le mie aspettative. Come professionista, ero certo che quella scuola poteva darmi una freccia in più da scoccare nel mio arco, e ho fatto tesoro degli insegnamenti di grandissimi professionisti per essere in grado di controbattere a ogni domanda e soprattutto a quelle che venivano da me.
La tv è inondata di trasmissioni di enogastronomia che replicano se stesse. È una sorta di bulimia, consumiamo virtualmente più cibo di quanto ne mangiamo. È un sintomo o la malattia?
Il problema è che non ne consumiamo di cibo. Amiamo guardarlo, perché non ne produciamo più e non ne conosciamo la materia e l'essenza. Preferiamo che siano altri a proporcelo, persone che si elevano a mega detentori della verità lasciando agli altri mille quesiti. Tutti dovrebbero cominciare a riprendere in mano, a conoscere, l'arte casearia, i principi della fermentazione o della frollatura per contrastare quei pochi che negli anni hanno acquisito un potere visibile e che stanno facendo man bassa di cervelli e di sicurezze. Il mio messaggio è quello di riportare le persone a fare e non a guardare.
La monotonia dell'innovazione e della creatività a tutti i costi non rischia di vanificare i risultati che pure ci sono stati nella crescita qualitativa del settore?
I risultati ci sono stati ma sempre in maniera molto autoreferenziale e parlo anche dei miei predecessori e di quelli che vengono spesso menzionati. Il problema è stato che, esplosa la bolla del benessere degli anni Ottanta, quei pochi di cui parliamo che hanno avuto la cultura, la facoltà e la possibilità economica di poter viaggiare sono ritornati con la loro verità, raccontando una storia. Così nessuno si è formato con la verità del singolo, con una propria cultura e una propria opinione. Oggi invece molti giovani proprio a causa - fortunatamente - di questo fenomeno di massa che coinvolge il mondo della cucina vogliono approfondire la loro conoscenza ritagliandosi un angolo di paradiso e non guardano più a quelle persone come degli dei in terra, ma come a persone normalissime che fanno della loro passione un lavoro.
La sua cucina vuole essere vera, concreta. Quanto influisce in questa pratica la sua passione per la cucina asiatica, estremamente variegata ma certo non effimera?
La mia cucina è vera, essenziale, minimalista, pura, ed è strettamente legata all'asiatica da quando ho cominciato a studiarne le particolarità che l'hanno contraddistinta nei secoli e nei millenni. Non è detto che per fare una cosa buona o anche rozza - come potrebbe essere una Pajata o una Carbonara - si debba per forza perdere in gusto se si presenta in forma essenziale e senza fronzoli. Credo che in questo momento storico siamo nella possibilità di mantenere un gusto, una tradizione nella maniera più semplice possibile. Sono super allineato alla cucina asiatica e sono convinto che al momento sia l'unica che possa ancora dare delle linee guida non solo nei contrasti e negli abbinamenti ma per la logica, per il senso, che ci sono dietro. Ci sono troppi creatori di illusioni con parole come fantasia e creatività.
Lei ha detto che in tv puntava a un pubblico di nicchia per poter dire liberamente la sua e per poter mostrare il suo concetto di cucina come paradigma universale di convivialità, interazione culturale, recupero sociale e integrazione. Per questo ha voluto studiare il linguaggio dei segni (LIS) presso l'Issr (Istituto statale sordi) di Roma?
Sì, per loro ho creato una video-ricetta di Cacio e Pepe, la prima di una serie. Altre tre sono in preparazione e saranno realizzate nei prossimi mesi.
Intervista flash
Il tratto principale del suo carattere?
Sono un maniaco della perfezione. Esigo molto da me stesso e di conseguenza dagli altri. Se per alcune cose posso sembrare tollerante, specialmente in cucina divento un super conservatore, un integralista della bellezza e dell'essenza. Non sopporto le storpiature occidentali di piatti giapponesi o cinesi. Nello stesso tempo posso essere stravagante, ironico, machiavellico... ecco, un ossimoro.
Il suo difetto maggiore?
Forse la purezza con cui mi rapporto al mondo: non sono mai prevenuto. A volte questo mi regala grandi e belle sorprese, ma volte mi espone al rischio di essere ferito, accorgendomi che qualcuno sta pianificando qualcosa alle mie spalle o sta cercando di cogliermi in fallo.
Il pregio a cui tiene di più?
La curiosità.
Il vino che preferisce?
Il Prosecco. Prima non lo consideravo tra i più interessanti, poi stando in Veneto mi ha rapito. Anche la conoscenza di molti produttori mi ha aiutato ad apprezzarlo.
Il piatto che preferisce?
Le sarde in saor, perfette con il Prosecco.
Il suo colore preferito?
Il rosso.
Il suo hobby?
Scrivere, fotografare, ascoltare musica. Tutta quella possibile e immaginabile. Ultimamente ascolto rap, pop, jazz, hip hop e contaminazione del jazz col hip hop.
Il suo sport?
Crossfit con mio fratello.
Il nome del suo cane?
Shanti, come la preghiera indiana. Ma io sono lo zio, perché è di mio fratello.
Se non vivessi a Frascati/Roma dove vorresti vivere?
In realtà non ho una casa mia. Vivo praticamente in treno. Tra la casa dei miei che stanno a Frascati e quella di mio fratello a Roma. Comunque vivrei sicuramente a Tokyo.
Lo scrittore che preferisce?
Haruki Murakami, Chuck Palahniuk, Banana Yoshimoto e molti altri.
Il regista che preferisce?
Darren Aronofsky (Requiem for a dream).
ITALIAATAVOLA
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