venerdì 21 novembre 2025

Paese fast food? Serve cambiare modello

 

Se non vogliamo diventare 

un Paese fast food 

serve cambiare modello

Il lavoro deve tornare centrale in un nuovo patto sociale che restituisca dignità, autonomia e futuro alle persone, soprattutto ai giovani. L’attuale modello produttivo non intercetta più le loro aspettative e rischia di svuotare città e servizi. Occorre ripensare l’offerta lavorativa, valorizzare il settore dell’accoglienza con incentivi concreti, evitando una deriva da “Paese fast food”

di Aldo Mario Cursano
Vice Presidente Vicario Fipe

Se non vogliamo diventare un Paese fast food serve cambiare modello

Il lavoro deve tornare a essere il cuore pulsante di un nuovo patto sociale. Il lavoro inteso come libertà. Non un lavoro qualsiasi, ma uno che possa riconoscere prima di tutto la persona e che la stessa venga messa nelle condizioni di essere parte di una comunità e che gli restituisca un’autonomia e un futuro. Io ritengo che non vi sia libertà se non c’è possibilità effettiva di costruire un progetto di vita. Qui è la sfida, è qui che occorre ripensare un modello di offerta di lavoro adeguata alle aspettative dei nostri figli, dei nostri ragazzi, perché si è rotto il patto che sosteneva il passaggio generazionale nel nostro modello produttivo e distributivo.

Se non vogliamo diventare un Paese fast food serve cambiare modello

Quello attuale è un modello che non intercetta più i giovani

Un modello che non intercetta più i giovani

La situazione, che sta diventando strutturale e tocca in un modo profondo anche il futuro della nostra offerte ristorativa e di servizi, ma in generale l’avvicinamento dei giovani ai nostri modelli di lavoro, ci impone senza dubbio di pensare a nuovi modelli. E di pensarli con nuovi approcci che possano far ripartire entusiasmo, interesse e creatività, per un nuovo progetto di vita che veda protagonisti i ragazzi.

In questa direzione, io penso che serva creare un nuovo equilibrio, perché se non riusciamo a riposizionarci e a ripensare anche alle nostre città, l’attuale sistema rischia davvero di condurre alla situazione in cui i nostri centri storici non siano più rispondenti al vissuto in cui i ragazzi si riconoscono e a cui danno valore. Le città senza cittadini sono come le campagne senza contandini: una selva oscura, buia, in mano all’insicurezza. E questo sta già creando desertificazione, perché non si intercetta il bisogno e non si vede prospettiva nell’attuale modo di vivere, che se è vero che ha risposto ad aspettative e bisogni storici, oggi non riesce più ad essere adeguato alle aspettative.

Io penso che serva investire e dare valore al lavoro e non alla speculazione e alla rendita a cui il mondo sembra destinato. Dobbiamo restituire valore, inteso come economia, trovare forme di incentivazione, di fiscalità dedicata, perché serve fare in modo che chi fa sacrifici, come chi lavora nell’accoglienza e nella ristorazione, possa avere vantaggi veri, con componente economica, retributiva e pensionistica che sia premiale rispetto ad altri settore più "comodi".

Evitare la deriva verso un modello da “Paese fast food”

Se non vogliamo fare la fine di altri Paesi dove none siste più il servizio, una qualità dell’accoglienza, ma un modello fast food dove il cibo è solo una commodity, se non preserviamo il nostro modello di accoglienza, umanità e relazione, se non rimettiamo insieme un patto sociale per ritornare a coltivare umanità e ad ascoltare i sentimenti delle persone, saremo destinati a soccombere in un modello di banalizzazione. Quindi serve trovare forme per premiare e valorizzare, solo attraverso il lavoro manteniamo vive le nostre piazze. Se queste luci si spengono, abbiamo perso tutti.

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