venerdì 4 novembre 2022

DAL REGALE BASILICO NON SOLO IL PROFUMO

 DAL REGALE BASILICO

NON SOLO IL PROFUMO


In questo periodo di post-estate lasciamo la refrigerante ombra degli alberi per dedicarci a una pianta piccola ma molto importante, specialmente d’estate, nelle cucine italiane e sulle tavole dei gourmet. È noto per il suo profumo intenso e inconfondibile ma non è solo questo il suo pregio. 

Il suo ha origini… regali e deriva del greco basileus (re). Avrete capito che si tratta del basilico, nome  proprio azzeccato per questa erba degli orti profumata, ma anche salutare grazie alla sue proprietà dige­stive,  toniche, antispasmodiche, e perfino emmenagoghe (capace di promuovere la mestruazione). In botanica è chiamato 0cimum basilicum, dove il primo termine significa appunto «profumo». Per questo motivo, come ricorda Carlo Lapucci, ha ispirato il simbolo della dolcezza e l’impresa «Quo mollius, eo soavius» (quanto più deli­catamente, tanto più soavemente). Un’altra impresa, «Mentis nubila pellit» (caccia l’oscurità dalla mente), è stata ispirata dalla credenza secondo la quale avrebbe la proprietà di combattere la depressione e l’abulia.

Aldo Fabrizi dedicò alla piantina un sonetto in romanesco che merita di essere citato perché riassume efficacemente in uno stile po­polaresco le sue proprietà:

 

A parte che er basilico c’incanta

perché profuma mejo de le rose,

cià certe doti medicamentose

che in tanti mali so’ ‘na mano santa.

Abbasta ‘na tisana de ‘sta pianta

che mar de testa, coliche ventose,

gastriti, digestioni faticose

e malattie de petto le strapianta.

Pe’ via de ‘sti miracoli che ho detto,

io ciò ‘na farmacia sur terrazzino,

aperta giorno e notte in un vasetto.

Dentro c’è ‘no speziale sempre all’opera,

che nun pretenne modulo e bollino

e nun c’è mai pericolo che sciopera.

 

Si tiene spesso ilo basilico sui davanzali o vicino a casa perché si crede che liberi l’aria dagli spiriti maligni sicché Le foglie messe nell’acqua purificherebbero il corpo e la mente da malefici influssi, che si possono cacciare anche spargendole asciutte sul pavimento. La sua presenza avrebbe anche un altro effetto non dissimile secon­do il codice di corrispondenze tradizionale, per il quale una pianta che allontana i demoni tiene a debita distanza anche serpenti e scor­pioni e persino le zanzare. Si sostiene infatti che, posta vicino ai pomodori, respinga gli insetti. La sua presenza nelle cucine e nelle stanze da pranzo preserverebbe dagli avvelenamenti o disturbi cau­sati da cibi cattivi, alterati o «fatturati».

Il famoso pesto alla genovese

In India vi è un basilico sacro detto tulast, un’erba consacrata e iden­tificata con Lakshmi, sposa di Vishnu, dea della bellezza, della quiete e dell’armonia, per tanti aspetti simile alla nostra Afrodite Urania. Si invoca la tulasi per proteggere tutte le parti del corpo, ma soprattutto perché conceda figli a chi li desidera. Narada, l’Orfeo indiano patrono della musica, ha cantato le lodi di questa pianta immortale che contie­ne tutte le perfezioni, allontana ogni male e purifica. La tulasì apre il cammino del cielo agli uomini pii. Per questo mo­tivo, quando un uomo è morente, gli si pone sul suo petto una foglia della piantina, e dopo la morte se ne lava la testa con acqua conte­nente semi di lino e foglie di tulasi. Chi la pianta e la coltiva religiosamente ottiene il privilegio di salire al palazzo di Vishnu circondato da dieci milioni di parenti.

A sua volta Vincenzo Maria di Santa Caterina, un religioso italiano vissuto nel XVII secolo, scriveva a proposito di un’usanza tipica del Malabar: «Quasi tutti, specialmente gli abitanti del Nord, adorano un’erba simile al nostro basilico gentile, che ha tuttavia un profumo più intenso. La chiamano collò; ognuno costruisce davanti alla propria casa un altarino circondato da un muricciolo, alto un mezzo braccio, in mezzo al quale alza pilastrini. Hanno una grande cura di quest’er­ba; di fronte a essa sussurrano più volte al giorno le loro preghiere, prosternandosi spesso, cantando, danzando e innaffiandola. Sulle ri­ve dei fiumi dove vanno a bagnarsi e all’entrata dei templi se ne vede una grande quantità: essi credono infatti che gli dei amino particolar­mente quest’erba e che il dio Ganavedi vi dimori abitualmente. Du­rante i viaggi, non avendo questa pianta, la disegnano sul terreno in­sieme con la radice; ecco come si spiega il fatto che sulla spiaggia del mare si vedono spesso questi disegni tracciati sulla sabbia».

Anche in Occidente si attribuisce al basilico un simbolismo eroti­co che si riflette nella proprietà di favorire il concepimento, tant’è vero che una volta lo si dava come foraggio ad asine e cavalle prima della monta. In Abruzzo, nel Chietino, un giovane contadino si reca­va a far visita alla fidanzata portandone sull’orecchio un rametto, ma non lo regalava all’amata perché il gesto sarebbe stato interpre­tato come segno di disprezzo. In Toscana lo si soprannominava «amorino»: ruolo confacente, come osserva Angelo De Gubernatis, riferendo che in una novella di Gentile Sermini, un narratore senese del XV secolo, una giovane donna avverte il suo amoroso che può salire con un gesto simbolico: togliendo il vaso di basilico dal davan­zale.

In Sicilia era simbolo di Amore ricambiato, sicché la ragazza che ne metteva da un giorno all’altro un vasetto sul davanzale voleva far sapere di essere innamorata. Ma in alcune zone quel vasetto po­teva anche indicare la casa di una prostituta.

Il tema del basilico simbolicamente «mezzano» si ritrova in una novella diffusa in tutta l’Italia, e che in Toscana è intitolata Il basilicone. C’era una volta un bella ragazza di nome Caterina, che ogni giorno si recava da una sarta per imparare a cucire. Aveva ricevuto l’ordine di annaffiare ogni mattina una sontuosa pianta di basilico posta sul balcone che si affacciava sulla via principale, dove passeg­giava abitualmente il figlio del re. Questi finì per notare non soltanto quella pianta gigantesca ma anche la bella ragazza che l’annaffiava amorevolmente. Sicché un giorno le rivolse la parola: «Bella ragazza di sul balcone, quante foglie ha il vostro basilicone?»

Caterina, intimidita, non seppe che cosa rispondere; ma siccome la scena si ripeteva ogni mattina, alla fine si consigliò con la sarta che le suggerì una risposta. Quando il principe le rivolse la solita do­manda, lei disse: «E voi, figliolo del re imperiale, quante stelle ci sono in cielo e pesci in mare?»

Il gioco si trasformò a poco a poco in una sequenza di beffe e ri­picche, finché il principe, innamoratosi perdutamente della bella Caterina, il cui nome le si addiceva perché le apprendiste sarte han­no come patrona la omonima santa d’Alessandria, decise di spo­sarla.

Il basilico non è soltanto benefico all’amore: i suoi rami fioriti po­sti dentro un vaso in una stanza propizierebbero l’amicizia e la con­cordia famigliare. Questa sua funzione si riscontra anche in un’usan­za siciliana, riferita dal Pitré: la cosiddetta «comare di basilico», una forma di comparatico fra donne e ragazze che si stringe scambian­dosi vasi di questa pianticella nel giorno canonico di San Giovanni Battista.

È insomma una pianta magica che può perdere tuttavia i suoi ef­fetti se la si tocca o si taglia col ferro, come riferisce Plinio. La si de­ve cogliere per pratiche magiche con la mano sinistra e a luna cre­scente.

Un suo rametto permette infine di capire se una persona è ipocri­ta o bugiarda: basta, pare, metterne un ramoscello sul suo corpo mentre dorme; se il sospetto è fondato, le foglioline avvizziranno in brevissimo tempo.

Ma non son tutte rose e fiori per questa pianticella perché secon­do alcuni naturalisti antichi poteva condurre alla pazzia e, se veniva tritata e coperta da una pietra, faceva nascere uno scorpione, mentre se la si masticava e poneva al sole generava vermi. “Diodoro sostie­ne, nei suoi Empirica - scriveva Plinio dopo aver riferito queste noti­zie - che cibarsi di basilico fa venire i pidocchi”. La generazione suc­cessiva ha difeso energicamente questa pianta asserendo che le capre ne mangiano, che nessuno ne ha avuto la mente sconvolta e che costituisce un rimedio contro le punture degli scorpioni di terra e il veleno di quelli di mare, se è preparata con vino e con l’aggiunta di poco aceto.

Anticamente i contadini sostenevano che si doveva accompagna­re la sua semina con ingiurie, maledizioni e imprecazioni affinché crescesse più vigoroso. Da quell’usanza nacque il detto proverbiale «Cantare il basilico», cioè lanciare maledizioni, imprecare contro qualcuno senza misurare le parole.

Lo si è considerato anche una pianta funeraria, come per esempio nell’isola di Creta dov’è simbolo di lutto. In questa luce De Gubernatis interpreta una novella del Boccaccio dove si narra la triste storia di Isabetta, una giovane di Messina che si era nascostamente innamorata di un bel giovane col quale faceva “di quello che più disiderava ciascuno”. Ma un brutto giorno un fratello scoprì per caso ciò che non avrebbe mai immaginato. Lo disse agli altri fratelli che decisero di uccide­re il giovane attirandolo in un agguato fuori della cittadina. Poi lo seppellirono. La giovane, che si disperava della sua scomparsa, non riusciva a capire che cosa fosse mai successo; finché una notte il fidanzato le apparve in sogno pallido e rabbuffato, con panni stracciati e fradici, rivelandole quel che gli era capitato e indicandole il luogo della se­poltura. Isabetta vi si recò in compagnia di una donna che era stata a suo servizio e ne conosceva i segreti; scavò dove la terra sembrava meno compatta trovando il corpo intatto dell’amato. Avrebbe voluto por­tarlo via per seppellirlo in modo più decoroso. Sicché si rassegnò a tagliargli la testa che, in modo da evitare che i fratelli s’insospettissero, sotterrò in un vaso da fiori dove piantò del basilico che in breve tempo, grazie alle sue lacrime, crebbe a dismisura. Lei passava ore e ore accanto alla pianta piangendo e lamentandosi finché i vicini avvisarono del suo bizzarro comportamento i fratelli che decisero di sottrarle di nasco­sto il vaso. Non l’avessero mai fatto! Isabetta cominciò a cercarlo per ogni do­ve, a domandare dove mai fosse sparito; e piangeva a dirotto e finì per ammalarsi gravemente. I fratelli, insospettiti, frugarono in quella poca terra e sco­prirono inorriditi la testa del giovane. Temendo che la cosa si risapes­se, si allontanarono da Messina. Quanto a Isabetta, morì poco dopo, consunta dalle lacrime e dal dolore. 

Sostene Schena

 

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